Bella Napoli and You

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FELICE DE CONCILIO

Durante la lettura di questo libro ho ritenuto irrinunciabile dover descrivere le emozioni che ha suscitato in me e sono state tante le forme ed i modi che mi sono passati per la mente per farlo ma ora decido di lasciarmi trasportare da quelle stesse emozioni e seguo l’istinto.
Ho scoperto il testo perche’ sono stato alla presentazione fatta in libreria invitato da un caro amico che ha anche dato il suo contributo per lo stesso. Bella Napoli infatti raccoglie dodici storie, dodici testimonianze di gente comune, napoletani che si possono incontrare tutti i giorni girando per la citta’, persone a cui l’autore ha chiesto di raccontare il personale approccio al lavoro da napoletani che vivono a Napoli.
Dico molto sinceramente che pensavo di essere coinvolto nella lettura esclusivamente per il capitolo raccontato dal mio amico anche se molte cose da lui descritte le conoscevo gia’ ma non tutto ed invece mi sbagliavo di grosso. La prefazione, la postfazione e le dodici storie sono stati il piacevole incontro con persone dotate di forte personalita che mi hanno offerto una visione del lavoro e del suo mondo di notevole impatto.
La sorpresa piu’ grande e’ stata quella di ritrovare in altri i miei stessi pensieri,idee, opinioni e non lo dico certo con la presunzione di chi ritiene di averne l’esclusiva quanto perche mi ero rassegnato all’idea di ritenere questi concetti superati, vecchi, non condivisibili. La lettura e’ stata davvero appassionante ed in alcuni casi emozionante questo e’ il motivo per cui a mio parere ha meritato le mie cinque stelle.
Certo c’e’ il trasporto per la propria citta’ che inevitabilmente si respira nelle parole di ognuno di loro ma i concetti espressi sono assoluti e prescindono da tutto.
Ho compreso ancora meglio quanto ( per molti ma non per tutti ) vivere a Napoli, soprattutto vivere il lavoro, sia particolrmente oneroso in termini di impegno, di emotivita’, di ostacoli che si interpongono lungo il cammino.
Ognuno di noi ha una storia alle spalle e’ banale dirlo, scontato, ma e’ appassionante rendersene conto come se fosse la prima volta e quella emozione ti permette di scoprire tante cose nuove. Leggendo di queste dodici vite ho in parte riveduto me stesso, ho conosciuto nuove sensibilita’, mi e’ stato offerto un diverso punto di vista delle cose, ne ho imparate di nuove.
Ognuno puo’ vivere con la propria sensibilita’ le storie raccontate in questo libro ma come amo sempre dire io che sia un libro pluripremiato o che sia il libro di un perfetto sconosciuto se i contenuti ti emozionano, ti trasportano allora si e’ di fronte ad un buon libro.

MICHELE FORNUTO
Questo libro è un monumento all’Io del lavoro (niente a che fare con l’Io decrepito Freudiano), un Io razionale, schietto, solare proiettato nell’affermazione della vita fondata sul lavoro.
La scrittura, di stile essenziale ma densa di portati, fa emergere protagonisti che si eradicano da quella parte emiplegica della realtà economica napoletana per realizzarsi in un qualsiasi lavoro dignitoso.
“Bella Napoli” è un faro proiettato sulla “Napoli bella” fatta di persone sane, senza eroismi, che si contrappone alla brutta napoli prigionera del pizzo, della droga, del malaffare, del sopruso e della perversa gestione dei rifiuti urbani.
Moretti è un narratore di razza che supera il sociologo impegnato che conosciamo: può tentare una letteratura di più ampio respiro, magari con protagonisti connotati da un pizzico di “Rivolta” … come diceva Camus.

GENNARO CIBELLI
Le storie sono veramente molto belle, vere, ben scritte, emozionanti, diverse, ti sembra di condividere non solo pezzi di vita ma anche pezzi di passione e di anima delle persone che si raccontano. Persone normali che però proprio per questo ti danno l’idea che c’è ancora una possibilità, proprio come l’autore, Vincenzo Moretti, scrive nella storia introduttiva che poi è anche un poco la sua storia.

ANTONIO FRESA
Ci sono quelli che non possono stare lontani; quelli che pensano di fuggire e quelli che fuggono: “Bella Napoli” è una domanda o un’esclamazione, una speranza o una possibilità?
L’unica posizione esclusa è quella dell’indifferenza. Milioni di parole sono state infatti spese sulla nostra città, la sua storia, i suoi mali.
Ed ecco ora un libro di Vincenzo Moretti, semplice e complesso a un tempo, Bella Napoli, (Ediesse, 2011): dodici storie di napoletani, “di chi ogni mattina non si veste da supereroe ma da artigiano, insegnante, operario, scienziato, barista, perito chimico e così via. Di chi con la propria normalità mantiene accesa la speranza e rende meno evanescente la possibilità di cambiare. Persino quando non lo sa”.
L’autore, Vincenzo Moretti – sociologo, responsabile della sezione Società, culture e innovazione della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, insegna Sociologia dell’organizzazione nell’Università di Salerno – ha raccolto queste dodici storie di lavoro, di passione e di rispetto per mostrare una Napoli della quotidiana applicazione al fare, della fedeltà a se stessi e alla propria identità.
Perché storie e non analisi o ricostruzione storica o sociologica?
Puntuale giunge la prefazione di Moretti – un misto fra la riflessione e il racconto – a ricordarci che: “un racconto non è solo un semplice susseguirsi di eventi, ma dà forma al trascorrere del tempo, indica cause, segnala conseguenze possibili” (Richard Sennet 2002).
Pagina dopo pagina, scoperta dopo scoperta, seguendo il rapporto con la città e con il lavoro di dodici napoletani, si è chiamati a un confronto che si fa sempre più ampio, più nazionale, più epocale.
Napoli sembra racchiudere in sé, ancora una volta nella storia, contraddizioni e tensioni che non sono solo sue e che addirittura anticipano e pongono al centro le questioni del domani.
Quale questione appare oggi essere più rilevante, più drammatica e più imprescindibile di quella del lavoro, della dignità del lavoro, in un paese come l’Italia che “non ha più una visione condivisa del proprio futuro….esattamente perché alle vie del lavoro e della partecipazione ha preferito quelle della ricchezza senza capacità, del comando senza responsabilità, dell’arrivismo senza regole, della notorietà senza merito”? Le vite dei singoli si intrecciano, si raccontano a creare un tessuto che ci riguarda tutti. Le esperienze di dodici napoletani ci aiutano a porci le domande giuste.Antonio Fresa

Pubblicato su “Il Mediterraneo”, diretto da Diego Penna

MARIAGIOVANNA FERRANTE
Io non sono una Napoletana. Nel senso che non sono nata a Napoli. Ma posso affermare con certezza di essere innamorata di questa città, dalla quale mi sento figlia adottiva da un po’di anni a questa parte, grazie alle esperienze-di studio, di lavoro e di svago-che mi hanno permesso e mi permettono di viverla in modo piuttosto intenso, nel bene e nel male. Ho studiato a Napoli, e da studentessa ho iniziato a respirare l’“aria della città”, trattenendomi spesso nella zona del Centro alla scoperta di stradine e piazze.
Il mio stato di insegnante precaria mi ha portato nei licei napoletani, mentre i vari corsi di improvvisazione teatrale e di tango mi hanno permesso di conoscere la Partenope notturna, con il suo frastuono, ma anche con i suoi silenzi, a volte inquietanti.
In questo senso, mi viene in mente un elenco alla maniera di “Vieni via con me”: in esso potrei inserire, tra i motivi per andar via, la camorra, la microcriminalità, la munnezza, il traffico, le auto in doppia fila, il lavoro nero, la disoccupazione.
E se mi limitassi alla pars destruens potrei restare prigioniera dei consolidati clichè che fanno di Napoli una città suicida, priva di voglia di riscatto e vittimista.
Ma poi ho la possibilità di elencare i motivi per restare. E oltre al mare, al sole e ‘o mandulino, ho la certezza che i motivi per restare sono tanti, come ho potuto constatare leggendo un bel libro, che è quello di Vincenzo Moretti. Ho comprato il volume più di un mese fa, in occasione della sua presentazione alla Feltrinelli di Piazza dei Martiri.
Ricordo che pioveva a dirotto e che non potevo aprire l’ombrello a causa del vento: sono arrivata in libreria fradicia di pioggia, ma giusto in tempo per assistere all’incontro con l’autore.
Una bella presentazione, priva di retorica e trasudante entusiasmo, grazie alla quale il libro è giunto tra le mie mani.
Un bel titolo, BellaNapoli: a dirla tutta, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata l’associazione con una pizza fumante, con doppia mozzarella di bufala, olio extravergine e basilico…
E in effetti, leggendo il libro, credo di aver vissuto questa avventura sinestetica, perché quello che mi è rimasto, dopo l’ultima pagina, è stato un buon sapore. Un sapore di sincera voglia di vivere e di amare questa città. Soprattutto, di lavorare, e di farlo senza imbrogliare, senza farsi raccomandare e senza prendersela col destino se le cose non vanno per il verso giusto: è quello che fanno dodici persone normalissime, e nel contempo eccezionali nella loro normalità. Che abbiano una laurea in tasca o no, non fa differenza: queste dodici persone raccontano, nella semplice complessità di un racconto di vita, cosa significhi svegliarsi la mattina e andare a insegnare in una scuola di periferia, o inseguire un contratto a termine, o essere costretti a reinventarsi dopo aver svolto per diversi anni sempre le stesse mansioni.
Ecco che mi viene in mente un’altra cosa: la canzone di Caparezza, Eroe. Il tono non è certo quello del cantante pugliese, però ogni volta che sono giunta al termine della lettura di una vita, mi è sembrato di sentire le parole “straordinario tutte le sere”. Forse è anche per questo che ho impiegato più tempo del solito per finire il libro, un po’ come mi è capitato per Uno, doje, tre e quattro: in questo testo, come nel precedente, non si può leggere una sola riga senza riflettere, senza provare un moto dell’anima. Per questo motivo, la mente si scopre piacevolmente stanca alla fine di una tranche de vie dal momento che ha vissuto empaticamente lo stesso percorso della voce narrante, provando le sue stesse emozioni, dalla frustrazione, alla riscoperta di sé e delle proprie capacità, alla soddisfazione di dire a se stessi e agli altri: “Ce l’ho fatta”…
Emma, Angelo, Francesco, Beppe … sono tutti straordinari questi personaggi, che non “sopravvivono al mestiere”, ma lo vivono. E lo amano, perché amano farlo in questa città.
Vincenzo Moretti è riuscito molto bene a trasmettere tutto questo, senza vuote apologie e senza ricorrere a luoghi comuni. Che ami Napoli, non si percepisce semplicemente, si sente. E poiché la ama, incondizionatamente, riesce a trasmettere questa onda emotiva anche a chi legge questa sua “antologia” di esistenze. Non è un caso, poi, che il libro si chiuda con la storia di Beppe, artigiano, musicista, pensatore, che scrive: “Se la guardi in maniera distratta, la foglia oro è solo una metodologia per rivestire un oggetto in oro. Ma se la guardi con gli occhi giusti…è il risultato finale…di un lavoro minuzioso portato avanti fino all’ultimo come deve essere portato avanti, cioè con pazienza, con meticolosità, con maestria e soprattutto, ma sì, adesso dico la parola giusta, con amore”.
Penso che in queste parole ci sia tutto il senso del libro. Vincenzo vuole insegnare, in questo libro, che “forseforse” vale la pena di restare e di darsi da fare. E auguro a questo libro di capitare nelle mani di tante, tantissime persone, e magari anche in quelle dei candidati alle prossime amministrative. Perché Napoli possa essere conosciuta non solo e non più come terra di camorra e di munnezza, ma come città di Persone e di rispetto.

CONCETTA TIGANO
Ho finito di leggere Bella Napoli già da un po’, volevo pensarci, molte belle cose sono già state dette e le condivido tutte, è un libro diverso da quelli che ho letto finora, questa raccolta di storie mi è piaciuta molto.
Le esperienze di lavoro raccontate con il cuore in mano, in prima persona, con amore, hanno , secondo me, un filo che le unisce, anzi due.
In ogni storia ci sono due costanti : l’intelligenza dei protagonisti ,unita al carattere, e una persona che riconosce potenzialità e che aiuta a volare alto.
A questo proposito, mi chiedo se oggi, con i test di ingresso universitari “selvaggi”, alcuni talenti sarebbero emersi.
Il famoso “diritto allo studio” mi sembra calpestato, i ragazzi hanno tempi tutti strampalati , adesso più che mai, può capitare di capire tardi qual è la propria strada, e di persone , anzi e di maestri ,ce ne sono sempre meno, pochi fanno “squadra”, anzi molti si circondano di imbecilli per non sfigurare, con quel poco che hanno.
Un’altra cosa che è piaciuta è la finta locazione delle storie, è vero, sono tutte persone di Napoli e dintorni, ma gente così , per fortuna, è dappertutto, è la parte migliore del nostro paese, mal rappresentata purtroppo.
I protagonisti , che sembrano seduti lì a raccontarti, testimoniano che si può, che è possibile, che bisogna lottare e credere in quello che si fa, in ogni storia c’è passione, impegno, ma quello che mi ha colpito c’è gioia e mai disperazione.
Non c’entra granchè , ma voglio raccontarlo qui lo stesso, sabato ero in macchina con mia madre, avevo messo un CD intitolato Bella Napoli , non è un caso, mia madre canticchia qualche strofa e poi mi dice “ Un popolo capace di scrivere e cantare queste canzoni così belle, non se lo merita di essere sfruttato e derubato dalla camorra”
Ho pensato “ Ci giurerei! A Vincenzo piacerebbe intervistarla!”

ANTONIO VENTRE
Si chiama Antonio Ventre, vive a Bologna, stamattina ho trovato la sua lettera nella cassettà delle lettere all’università. Stasera gli ho telefonato, l’ho ringraziato, gli ho chiesto se potevo pubblicarla. Mi ha dato il permesso, mi ha ribadito del suo piacere a leggere cose belle di Napoli, mi ha parlato di una Associazione Reginella fondata a Bologna dai napoletani. E’ la seconda volta che lodico in due giorni, ma davvero si vive anche di soddisfazioni. Grazie di cuore signor Antonio.

ETTORE COMBATTENTE
“Bella Napoli” è una raccolta d’interviste trasformate in racconti da Vincenzo Moretti; i temi sono due: il lavoro e la Città. La città è nel titolo “bella”, quanto bella? come è bella? La città è lo scenario delle Storie di lavoro, comune a tutti i giovani, ma con un complicazione in più per chi vive a Napoli. A dimostrazione che la qualifica di “bella” nel titolo del libro è ironica e amara. Direi, capovolgendo il senso dei versi di una nota canzone “e nce ne costa lacreme Napule a nuje’ napulitan”.
Le storie sono differenti le una dalle altre, pur trattando lo stesso tema, sono differenti, innanzitutto, per la filosofia personale e per un linguaggio proprio di ogni intervistato da Moretti.
Moretti ha sottoposto uno schema di questioni, dal quale ha tratto domande, ma ha ricevute risposte nelle quali ha colto diversità, al di la dei fatti; e non poteva essere altrimenti: le risposte di ognuno rispecchiano le individuali diversità, dato da un patrimonio genetico, esperenziale, ambientale, familiare, scolastico, cittadina, di quartiere, amicale, inconfondibile e irripetibile, e in tale contesto la esperienza di lavoro è propria di ognuno, il linguaggio è personalissimo e Moretti ha la capacità di ricostruire per ognuno il suo linguaggio.
In questi lavori di memorie personali, la storia e il linguaggio, soprattutto nei sensi nascosti, anche inconsapevoli a chi parla non solo con le parole ma anche con i gesti, appartengono a chi l’ha vissuta, la letteratura appartiene all’estensore della storia che la rende attuale nella misura in cui ha rispettato e ha reso evidenti i sensi nascosti e le qualità individuali di chi ha vissuto e vive una realtà mai rappresentata in letteratura: il lavoro.
Come nel cinema, il regista usa il linguaggio cinematografico per rappresentare un vita vissuta da altri, così Moretti usa l’arte dello scrivere per rappresentare una vita di lavoro con il solo linguaggio possibile, quello del protagonista.
Questa proprietà diversificante, Moretti lo dimostra quando racconta la sua esperienza e i fondamenti morali del suo pensiero sul lavoro: con il linguaggio suo proprio, parla del padre, di Luigi Santoro, di Salvatore Staiano, e del professore Salvatore Casillo, lo fa con la sua autoironia, che conosciamo e che non manca mai nelle note autobrigrafiche. Forse anche troppa. Gli consiglierei di evitarla, almeno nella misura in cui ha scritto finora di sé.
L’esperienza di lavoro assume in sé tanti individuali verità, a prescindere dalla professionalità appresa; lo rivela la tecnica, la fisicità e la dinamica del lavoro, e inoltre la morale, l’estetica la psicologia e la filosofia del lavoratore. Questa è la trama del racconto, il personalissimo romanzo del lavoratore.
Questa è letteratura in modo compiuto: deve per questo compiacersi Moretti, cha più volte si è rammaricato di non essere collocato tra gli scrittori di romanzi. Cosa fa il romanziere? Si immedesima nei personaggi a tal punto che la vita di questi, frutto della fantasia e dell’osservazione della realtà dell’autore, è trasfusa nel loro originale linguaggio e s’influenzano vicendevolmente come avviene nella realtà tra persone diverse che rimangono tali. E’ l’operazione del libro di Moretti. Il tema del lavoro è nuovo e non visitato dalla grande letteratura. Ogni racconto di “Bella Napoli” afferma l’importanza del lavoro per la vita e per ll carattere. La città, vissuta con drammaticità, odio e amore, tra desiderio di restare e di trasferirsi altrove, appare con una immagine diversa da quella che la retorica della bellezza ci ha dato. Della Napoli stereotipa, “un paradiso abitato da diavoli”, protagonista è, in sostanza, sempre Napoli, l’eccezionalità della città, e non le persone i cui drammi reali sono ignorati, vittime di questo paradiso abitato da poveri diavoli.
Un approccio nuovo nel raccontare la città attraverso il lavoro e gli uomini che lavorano: come lavora, l’insegnante, l’ingegnere Angelo M., il meccanico Salvatore, il venditore, l’addetta al call center , il barista ecc; non il valore del lavoro astrattamente inteso, come normalmente viene definito dagli esaltatori, un pò demagogici del lavoro.
Il valore del lavoro non può essere inteso se non dal come si fa, e bene, la qualità e il metodo del lavoro, che è diverso da persona a persona ed è parte della sua personalità, del suo rapporto con gli altri e con sé. Nei singoli racconti risulta in modo evidente che la passione per il proprio lavoro sta nella passione di come si fa, dell’impegno e dell’intelligenza e della soddisfazione per il risultato conseguito.
Tutti si comportano con le qualità di un artigiano, che è nel nome stesso, arte: nel racconto del padre di Moretti, della ragazza del call center, dell’ingegnere elettronico e della tristezza del “male che fa ancora” a Salvatore il “tradimento del lavoro” quando s’interrompe quel rapporto.
Mi ha colpito nel racconto dell’ingegnere elettronico Angelo M. di Napoli Arenella, la continuità nella riflessione di Moretti sui fatti della contemporaneità; ho ricordato Enkepata e la descrizione che lui fa del lavoro di ricerca scientifica in Giappone diretto dal suo amico.
Angelo M. parla della differenza tra l’esperienza italiana e quella di un paese europeo nell’approccio del lavoro di ricerca; lui era stato incaricato dall’azienda di progettare un selezionatore delle monete nei telefoni pubblici fabbricati dalla sua azienda. All’inizio il team costituito nel suo stabilimento segue un metodo appreso nell’università e applicato dalle aziende: le competenze affidate ai vari specialisti separatamente, vengono applicate sequenzialmente; successivamente, di ritorno dall’Inghilterra dove era stato inviato, sotto mentite spoglie, nella impresa fornitrice degli apparecchi selezionatori, ha applicato con successo il metodo sostanzialmente diverso conosciuto nell’azienda inglese: il team è complesso e complessivo, costituito dal nucleo responsabile della ricerca e degli specialisti, si discute insieme e si decide e si verifica insieme la programmazione, la qualità dell’ambiente di lavoro ecc.
Tutti partecipano alla ricerca sin dal primo momento: come misurare le monete che si immettono nel ricevitore. E’ l’ambiente di collaborazione che fa la differenza, così la temperatura costante dei locali in cui si sperimenta, la pulizia e l’igiene, il confort, e il ruolo del manager di rispetto del team, nel caso inglese, e di rude intervento, irrispettoso del direttore di Arzano, al quale pur si riconoscono competenze.
Nonostante quest’utimo l’applicazione del team inglese ha determinato il successo della ricerca e delle sperimentazioni. Poi l’azienda è andata in crisi; e produceva telefoni pubblici in molti paesi del mondo! Dipende dalla borghesia produttiva di Napoli e dell’ambiente esterno.
Quando si parla di assenteismo, di bassa produttività, di sfruttamento della manodopera, di diritti inalienabili in Italia , si prescinde dal lavoro , dalla sua qualità, del modo come avviene; un lavoro con una veste sempre la stessa da indossare.
Mi pare che questo fa la differenza tra la concezione antagonista classista e il rapporto collaborativo cooperativo che il moderno lavoro richiede e quindi della flessibilità accettata e delle condizione di contropartita di campenso e di nuovi diritti che la collaborazione richiede, non ultimo la partecipazione nella gestione e nel riparto degli utili.
La qualità del lavoro come relazione con gli altri significa uscire dalla visione dell’economia classica. Non è solo l’utilità, e non è neppure estrinsecazione della forza lavoro, dello sforzo fisico, cui il salario ha funzione di reintegro: il lavoro astratto comune a tutta la merce, il valore-lavoro implicito nella merce degli economisti classici, il plusvalore del marxismo, salario e profitto nel lavoro industriale, altro da sé (alienazione) del lavoratore.
Lavorare è fare qualcosa di bello e di utile per sè e per gli altri; è relazione, è svolgere un’attività complessiva dell’intelletto e del corpo ed è improntata dall’etica, dalla morale, dall’estetica, esso prescinde dalla proprietà dei mezzi di produzione, ed è tipico del lavoro artigiano, dell’artista e del volontario. Altrimenti non si spiega la collaborazione, in situazioni diverse, con l’impresa, il capitale, da parte di lavoratori dipendenti, come il padre di Moretti,il sindacalista Luigi Santoro, l’ingegnere Angelo M., il meccanico Salvatore ed altri.
Il problema del conflitto sul salario è altra cosa, è problema di contrattazione che ha affrontato meglio della sinistra antagonista italiana, la socialdemocrazia europea, conflitto senza antagonismo e cooperazione, ripartire equamente la ricchezza attraverso lo stato sociale e il fisco, il cosiddetto compromesso socialdemocratico. Consentitemi questa digressione extra letteraria. Questa è la passione che accomuna quelle persone, descritte dall’intervistatore e dall’intervista, come io ho raccontato nella mia memoria “Rosso Antico” di mio padre, sarto, come Antonio Borrelli ha raccontato ne “Il silenzio di mio padre” del suo, barbiere, e come Giovanni Mandato ha raccontato nella sua “Storia di un metalmeccanico meridionale” che io ebbi per primo nella mani e curai sul piano delle lettere.
La letteratura deve colmare questo vuoto della cultura: l’assenza del tema lavoro in quanto tale. Il libro di Vincenzo Moretti è pregevole, come dicevo, anche sul piano letterario. Siamo in pochi a coltivare questo interesse. Le memorie di lavoratori possono attrarre l’attenzione e l’interesse degli scrittori; ma quello che serve innanzitutto è il cambiamento dello stato sociale degli scrittori in Italia. Il romanziere alla pari di altri intellettuali è un chierico di professione, salvo eccezioni. Pertanto non ha conosciuto il lavoro come ragione dell’esistenza; la letteratura americana ha avuto un ruolo diverso e perciò ha autori che parlano della comune vita delle persone, il lavoro ne è parte importante: lo scrittore arriva a dedicarsi completamente alla nuova professione acquisita dopo di avere frequentato i luoghi e le persone del lavoro, la fatica e l’interesse al significato esistenziale alla produzione di idee e di fatti. . In ultimo voglio affrontare un problema politico.
Io ritengo giusto che si operi in qualsiasi modo per fare emergere il valore del lavoro, perché questo è formativo dei giovani, però non condivido la convinzione che si “puote” cambiare la cultura del lavoro a Napoli puntando sull’esempio.
Una politica del lavoro (e una politica del diritto allo studio) inteso in senso partecipativo, creativo dovrebbe aiutare i giovani a mettersi in campo come impresa di se stesso, abbandonare la prospettiva del “posto fisso” che tanto male ha fatto a Napoli e nel Mezzogiorno distruggendo mestieri che nel globalismo avrebbero avuto “competitività”. Fare impresa come, in altri tempi, diceva Vincenzo Moretti.
Per questo, io ritengo, che una politica è essenziale, non basta il puotismo.
Infine, bisogna evitare di farne una filosofia di Stato; non tutti i lavori sono stimolanti, corvéé ritenuti destinati ai non cittadini. E’ plausibile che, in una realtà complessa, ci sia posto anche a una visione meramente utilitaria del lavoro, per vivere e coltivare altri interessi nella vita.

MARIA PARAGGIO
Più volte ho fatto il viaggio in treno Salerno-Milano, Milano – Salerno. Il viaggio di ritorno è sempre più noioso, almeno fino a Roma. Tutti passeggeri che al massimo si scambiano un’occhiata o un gesto di cortesia per scusarsi di averti, involontariamente, dato in qualche modo fastidio. Sono quasi tutti intenti a leggere un giornale, un libro, a scrivere a pc o a prendere appuntamenti al cellulare. Poi, da Roma, l’atmosfera cambia, per la presenza, quasi assoluta, di napoletani o salernitani. Infatti comincia un allegro chiacchierare, come nel viaggio di andata, di persone che hanno qualcosa da raccontare della propria vita, del proprio lavoro, delle proprie esperienze. Quante storie di vita quotidiana si nascondono dietro i volti di quei compagni di viaggio. Ecco, la lettura di “Bella Napoli” mi è sembrato un piacevolissimo viaggio in treno in compagnia di persone , che avevano come denominatore comune l’amore per il proprio lavoro. Essi hanno un unico volto, quello della Napoli bella, della città che non si arrende a chi la vorrebbe sporca, malata e pericolosa.
In un blog di un famoso settimanale ho letto il post di un giornalista che aveva come titolo”A sud il cuore batte più forte”. Nel post c’era una specie di lista che spiegava il perché, secondo il giornalista, il cuore al sud batte più forte, nessuna che faceva riferimento all’amore per il lavoro. Ebbene io direi “A Napoli il cuore batte più forte” per le magnifiche storie di vita e di lavoro, raccontate con maestria dall’autore, e che dimostrano anche a Napoli il cuore di un popolo che lavora batte forte e con dignità.

GERARDO NAVARRA
“Non amo gli eroi”, dichiara Voltaire, “provocano troppo rumore nel mondo”.
Ecco quello che più mi ha colpito di “Bella Napoli”, il libro di Vincenzo Moretti, la contrapposizione della vita quotidiana alla dimensione eroica.
La dimensione della vita quotidiana che entra prepotentemente nella riflessione sociale.
Vincenzo Moretti, a mio dire, incarna alla perfezione quello che Alvin W. Gouldner chiama il “sociologo riflessivo”, cioè colui che ha come compito peculiare quello di tentare di focalizzare il significato della vita quotidiana come base della teoria, ma lasciamo stare la sociologia, perchè come sociologo lo conosco bene.
Voglio soffermarmi invece sul “narratore” Moretti, sulla sua capacità di scrittura, fluida e scorrevole che fa della semplicità la sua arma letale, perchè accattivante e coinvolgente.
In quale scaffale lo si trova in libreria? Sociologia o letteratura? Bhè, io ne creerei uno per chi come lui ha la capacità di unire la narrazione alla didattica, per chi possiede il gusto di leggere e quello di imparare, perchè Vincenzo Moretti è un “sociologo-narratore o narratore sociologo”, fate voi, leggete il libro e decidete.
Ad un certo punto Vincenzo scrive – le storie sono molto belle, quasi come le persone che le hanno raccontate, e perciò se il libro non funziona la colpa è solo mia -, ho riflettuto molto su questo passaggio e devo dire che, oltre che a possedere una notevole capacità empatica, è dotato di una sensibilità che nasce da lontano, nasce da quei valori radicati nelle passate generazioni, nasce da uno studio che è la controparte dell’approssimazione e della freneticità odierna, la quale, provoca solo disinformazione e appiattimento.
Le storie sono bellissime, sono vive, e sono grandi proprio per la loro semplicità e nello stesso tempo per il loro eroismo, si, eroismo fatto di passione, impegno e lavoro, quel lavoro quotidiano, lavoro laborioso, intenso, lavoro alla base della propria esistenza e motivo di orgolio per chi vive una “normale” e non “banale” vita quotidiana, perchè, leggendo “Bella Napoli” ci si accorge che la vita quotidiana non è mai banale, anzi, è il fulcro della nostra esistenza e dei nostri sentimenti.
“Bella Napoli” è composto da dodici storie che io ho gustato come una bevanda saporita, con dodici sorsi. Tutti squisiti.

DANIELE RIVA
L’etica del lavoro
“Ama il lavoro che hai imparato, e accontentati di esso”.

MARCO AURELIO, Pensieri, IV, 31

È qui però necessario che ti rammenti come la cura posta in ogni azione ha il suo valore particolare e la sua giusta proporzione.
MARCO AURELIO, Pensieri, IV, 32

«Il tempo non si vede, ma il lavoro sì». È una frase che talvolta mi capita sentire dire da mia madre: è un saggio aforisma della mia bisnonna, che non ho avuto purtroppo il piacere di conoscere. In quella saggezza contadina ritrovo il succo di Bella Napoli: la passione per il lavoro, la consapevolezza che svolgerlo bene, eticamente, dà valore e significato non soltanto al lavoro che si svolge, ma anche e soprattutto alle nostre esistenze, che si potrebbero altrimenti trasformare in vite da automi. Implica la cura nell’applicarsi ad un’opera, che sia la pulizia della macchina per il caffè o l’utilizzo di un sofisticato apparecchio per la cromatografia in alta pressione, che sia l’insegnamento di una professoressa o la responsabilità di un capotreno.
Vincenzo Moretti ha affinato la sua capacità di raccontare, e gli piace anche farlo – lo ammette lui stesso nello scritto di benvenuto che apre il libro. Chi lo conosce di persona sa quale grande affabulatore sia: con voce pacata ti disegna mondi, affronta il labirinto della nostalgia, illumina le grotte dei ricordi, si inoltra nelle reti delle connessioni. Ecco che allora si è divertito a cercare per Napoli persone fiere del loro modo di lavorare, del loro porsi positivamente rispetto al lavoro: le ha intervistate e ha raccontato le loro storie, indossando i loro panni, infilandosi discretamente nelle loro vite, facendo propri i loro tormenti e le loro speranze. Un lavoro non facile, certamente, ma un’ulteriore testimonianza che l’etica del lavoro ben fatto paga: non sembra infatti di trovarsi in un libro, leggendo Bella Napoli; piuttosto si ha la sensazione di essere lì seduti al tavolino di un caffè o in un salotto o in una comoda cucina ad ascoltare questi uomini e queste donne che parlano della loro vita, delle loro difficoltà, delle aspirazioni e delle frustrazioni, dei successi e degli insuccessi, ma sempre con una profonda dignità, con la consapevolezza che chi fa bene quello che deve fare ha sempre la coscienza tranquilla. E in quasi tutti i casi, questo senso del lavoro viene dalla famiglia, è retaggio inculcato con il loro esempio e con i tanti sacrifici dal padre e dalla madre. L’etica del lavoro “normale”, ma eseguito con fierezza, a testa alta, senza compromesso alcuno, elevata come vessillo di fronte alle strade che portano denaro facile ma immorale: “Io nel lavoro ho trovato dignità, un mio modo di sentirmi appagato nonostante i grandi sacrifici che mi tocca fare” dice Gabriele V., barista dei Quartieri spagnoli. C’è speranza per Napoli, c’è speranza per l’Italia, se esiste ancora gente così.

GIORGIO FALCO
Caro Vincenzo,
ho letto il libro, tempo fa, e ne ho tratto delle considerazioni che vorrei condividere con te. Chiaramente sarebbe più piacevole parlarne davanti a un calice di vino dopo le libagioni di rito, ma penso che sia più sbrigativo inviarti una mail.
Io credo che la definizione più bella del libro sia contenuta in una frase della postfazione: “Il libro di Vincenzo Moretti è un libro silenzioso.”
E’ un’espressione estremamente calzante, che “fotografa” il tuo libro con una immagine precisa; insostituibile. Inoltre dà un valore aggiunto al testo perché mette in luce un ulteriore merito di Bella Napoli: quello di scardinare contemporaneamente due luoghi comuni. Il primo è quello della disaffezione dei napoletani al lavoro, il secondo è che questi ultimi sono fracassoni, amanti del clamore, dell’eccesso, dell’esuberanza che fa urlare le proprie opinioni invece di esporle.
Ti dirò che il primo impatto con la lettura non è stato dei più felici. Sono molto prevenuto verso i libri di interviste. In genere le testimonianze venono manipolate in fase di trascrizione e la prima vittima di questa operazione è l’appiattimento del linguaggio. Il risultato, sempre spiacevole, e che un muratore parla con gli stessi termini di un ingegnere nucleare. In realtà, poi, non è né il linguaggio del primo, né del secondo, ma solo dell’intervistatore.
Le prime interviste del libro mi hanno dato questa sensazione, poi alla quarta (credo, non ho il libro sottomano) c’era un’insegnante che usava delle espressioni tipiche del dialetto, italianizzandole. Questo mi ha reso credibile il personaggio. Da quel punto in poi non ho avuto più la sensazione di essere “imbrogliato”. Forse ti sembra una considerazione superflua, ma un libro come il tuo ha bisogno di essere vero. Non ci trovo nulla di scandaloso se una persona con scarsa scolarizzazione scivola sui congiuntivi.
Un’altra riflessione: non so se hai notato anche tu che quasi tutti gli intervistati associano l’attaccamento al lavoro con la figura del padre. Il malizioso misogino che si annida dentro ogni maschio mi ha subito fatto concludere: “Perché le donne non fanno un cazzo dalla mattina alla sera”. Invece il padre-lavoratore che alberga nel mio cuore si è sentito gravato da un’altra responsabilità: quella di trasmettere ai propri figli la “morale del lavoro”. E’ un compito non da poco.
In conclusione aggiungo anche una mia personale esperienza. Chiaramente riguarda il lavoro, chiaramente è quello che ho imparato da mio padre.
Lui era convinto che la liberazione, e la salvezza, dell’uomo passasse attraverso il lavoro. Ha costruito la sua vita su queste convinzioni. Purtroppo, ad un certo punto, l’avanzare della malattia e gli acciacchi dell’età non gli hanno permesso più di arrampicarsi sulle impalcature dei cantieri. E’ stato quello l’inizio della sua fine.
Ciao.

SANTINA VERTA
Le storie raccolte da Vincenzo in “Bella Napoli” hanno lo splendore delle OASI, mi fanno pensare a ciò che dice Hannah Arendt:
“Persino nel cuore del deserto ci sono le OASI e anche se le OASI vengono distrutte dalle tempeste di sabbia o da un mondo che le respinge, rimangono comunque dei luoghi dove è possibile mantenere insieme mente e anima”.
Queste donne e questi uomini, con fatica e caparbietà lottano per contrastare: l’esclusione – la massificazione – il deragliamento in zone frastagliate da urti con la violenza che deturpa non solo la bellezza estatica dei luoghi, ma , soprattutto, gli animi più sensibili.
Storie emblematiche di una umanità maggioritaria che non viene quasi mai messa in evidenza dai media, non fa audience, non crea sciacallaggio morboso la NORMALITA’.
Quanta armonia, ironia, bellezza in questa NORMALITA’ di gente che vive e lotta ogni giorno per dipanare il diritto alla propria integrità. Anche nei momenti di arrendevolezza ai disagi,
I ripiegamenti hanno quella forza del coraggio che porta a rimboccarsi le maniche e ricominciare: c’è l’ardore della PASSIONE a non tradire se stessi e la naturale propulsione a non lasciarsi accadere, a non cedere alle lusinghe del facile ed effimero, a non permettere allo stridore del PRE-GIUDIZIO di tramutarsi in pre-dizione che si autoavvera.
C’è questo sguardo dell’intervistatore discreto e amorevole, artefice del non detto, quel porsi non giudicante che invita alla riflessione allargata e ad indagare oltre il contingente del quotidiano.. uno sguardo che dà brio ai racconti e ne suggella lo spessore non artificioso.
E’ in risposta a questo sguardo che abbraccia senza stritolare, le persone si illuminano di straordinarietà; credo che solo chi conosce le ragioni sociali e storiche che stritolano questa “BELLA CITTA’” e la sua gente, può permettere quest’ariosità non angusta e accogliere ogni diversità , sia territoriale che culturalmente differente.
Sono gli atti, l’agire che danno respiro alla SPERANZA e che fanno uscire dal deserto in un caleidoscopico intreccio di OASI PLURIME . TRASVERSALI – LEGGERE E PENSANTI . COLME DI SEMI DI PACE E NATURALITA’.
Non credo di aver esagerato nel delineare la carica di speranza che questa lettura mi dà.
Per ora ne scrivo nell’entusiasmo generato da ogni “incontro” con l’autenticità di queste persone che riconoscono se stesse come portatrici di attese di OASI, mentre esplorano la bellezza del LAVORO non come bisogno da espletare, ma come cifra di senso dello stare dentro l’OASI.
Forse esagero nel dare vigore a questi “Incontri”, dal volerli custodire per l’effervescente bellezza dei percorsi vissuti e/o da attuare, ma è come se ognuno di loro mi/ci consegnasse un testimone: -Va e coltiva OASI aggreganti“.
Non ho solo letto e intravisto percorsi di persone che credono nelle proprie capacità di reazione ai soprusi della gestione di rapina del nostro sud che ci vorrebbe scettici al cambiamento per perpetuare il favoritismo e l’anarchia della disonestà, ho vissuto e condiviso percorsi reattivi.
Ma devo aggiungere che questo senso dell’ OASI ho avuto la fortuna di sperimentarlo in diretta, ogni volta che raccolgo lo sguardo di mio padre, mai vinto dalle vicissitudini della fatica e da tutti quelli come lui che sono rimasti in quella terra aspra da coltivare e amare in ogni zolla.
L’ultima volta che l’emozione dell’OASI mi ha elettrizzato, risale a pochi mesi fa, quando ho avuto l’occasione di incontrare la gioiosità di persone che si sono confrontate in un percorso di narrazione e confronto delle proprie percezioni di vita, raccontate in un libro” Uno, doje, tre e quattro”.
Non ho solo incontrato pezzi di vita, ma la certezzadi aver costruito un’AMICIZIA sostanziale.
La cosa più stupefacente è che il bisogno di Oasi è percepito persino da una volpe, che ogni sera si avvicina alla casa di una coppia di giovani sposi che sanno creare ponti di solidarietà anche dove i cumuli di problematiche storiche del territorio, tenderebbero a far rinchiudere nel pessimismo.
La Volpe ha percepito la Bellezza e la generosità..ha fiuto che noi umani!
Mi ricorda la Volpe letteraria, eh già quella dei riti e delle attese!
Ma ritorniamo a “Bella Napoli”!
Credo che l’opera di Vincenzo sia di una preziosità che farà nascere intorno ad essa un’ ingombrante senso di appartenersi, per ora c’è questo autoriconoscimento antico, una tutela che parte da un lontano condividere lo stesso pane o semplicemente dall’essere riconosciuto come un “ coltivatore diretto” di Amicizie di cui Platone direbbe:
“ Se uno, con la parte migliore del suo occhio guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro vede se stesso”

Emma, un viaggio educativo
Emma F. insegnante di Napoli, mia coetanea, si racconta e ne condivido il percorso sin dal suo primo stacco verso un nord che non è mai stato tenero verso gli “stranieri” e noi del sud, eravamo solo “intrusi”.
Emma ad Edolo, ai confini con l’alta Val Camonica, negli anni’70, ha sperimentato l’estraneità ai luoghi e al modo di relegare le “novità” come invasive e la prevenzione era dipinta sui visi, mentre cercava di accedere alla ritrosia e vincere i pregiudizi radicati da tempo.
Emma riesce a creare ponti comunicativi passando da un’estraneità escludente ad una consapevolezza di collegamenti letterari e paralleli di vite che per magia conquistano i ragazzi di quella chiusa valle lombarda.
Emma dice che con i ragazzi ha sempre avuto una naturale capacità di interessarli e che dopo una diffidenza iniziale il dialogo si apriva alla fiducia e rispetto reciproco…resta l’amaro per la continua opposizione degli adulti.
Adulti preoccupati solo di aderire al credo del guadagno e che di cultura verso l’altro non sapevano che farsene, anzi l’altro era (è) visto con estrema paura.
Paura di essere contaminati dal brio e dall’estro creativo di operatori considerati “Sfaticati” e quindi poco produttivi!
E’ il rapporto con gli alunni che slava via le amarezze di un ambiente chiuso e presuntuoso.
Il Lavoro di Emma è impreziosito dagli atti educativi che hanno permesso ad ognuno dei suoi ragazzi/ ragazze di costruirsi come individui: aiutandoli a far scoprire loro la delicatezza – la capacità reciproca di ascolto – la disponibilità fiduciosa verso l’altro – la capacità di attesa – la consapevolezza delle potenzialità divergenti e tendenti non all’omologazione dei percorsi, ma ad una co-costruzione di saperi.
6 anni di Valli e poi Emma fa ritorno alla sua Napoli con la scia di quella nostalgia che stempera la fatica e deposita quei visi nello scrigno dei ricordi piacevoli e carichi di affetto: sono anni che depositano esperienze significative per riflessioni e azioni pedagogiche importanti.
Il ruolo dell’insegnante che aiuta a tirar fuori quello che già hai dentro, che fa da facilitatore – stimolo, che sospende il giudizio per permettere ad ognuno di essere portatore e sperimentatore di pensieri.
“L’idea guida era quella di sviluppare in loro la capacità di scelta e di critica e questa è rimasta, per tutta la mia vita da insegnante, essenziale!”
Emma che ha dato al suo agire pedagogico la voglia e la caparbietà della sperimentazione, investendo in creatività , scovando le specificità delle intelligenze che si dipanano dalla nebulosa del semplice esecutore.
Emma che dice…” Una delle cose più belle del mio lavoro è proprio la ricerca dell’alunno come altro da te, la ricerca di un metodo e di un percorso per arrivare all’altro e dargli delle conoscenze— Ogni anno è sempre una ricerca nuova..un’altra modalità di essere e di incontrarsi…
Grazie Emma per aver posto al centro dell’apprendimento il soggetto e non la ricerca del suo adattamento ai fini di un apprendimento a lui esterno e spesso estraneo ai suoi bisogni e ai suoi livelli di relazione.
Direbbe Mounier.”La comunicazione è meno frequente della felicità; più fragile della bellezza; basta un nulla a fermarla o a spezzarla fra due soggetti”.

PAOLO DE GENNARO
Pensando a Bella Napoli parliamo di risonanze e di impressioni pre-lettura del libro.
Premettendo che la risonanza è ciò che di proprio si muove al parlare dell’altro di seguito ti riporto le mie.
Mi ha destato coraggio, responsabilità e definizione la parte del discorso nella quale si è parlato della straordinaria forza della normalità e della ricerca di questa.
Questa società impone la corsa (di cui abbiamo parlato più volte), l’eccellenza, l’essere il meglio e lo strafare.
Lo strafare rasenta l’onnipotenza ed il suo delirio: chi si sente grande amatore, grande oratore, grande lavoratore non rimarrà che deluso nel momento in cui si raffronta con la realtà, una realtà normale che deve essere accettata per questo.
Fare ed essere normali. Prenderne coscienza è già un primo passo verso la serenità delle scelte (giuste e sbagliate, ma scelte personali quindi non causa di sensi di colpa, fare scelte giuste e sbagliate è nella nostra natura).
Saper scegliere vuol dire essere definiti e consapevoli di dove si sta, esser definiti vuol dire essere maturi e responsabili e quindi coraggiosi nel portare avanti, con fierezza, la propria vita normale. Eccezionalmente normale!
A presto.

ANDREA GIANFAGNA
Andrea Gianfagna è quello che si dice un uomo di altri tempi. Facile, direte voi, visto che ha 84 anni. E invece no. Perché ciò che fa di lui davvero una persona di altri tempi è il modo in cui si rapporta al lavoro e alla storia, anche la sua (ha avuto responsabilità di primissimo piano nella Cgil di Lama, di Trentin, di Cofferati); l’ironia, la franchezza (ti dice sempre in maniera diretta quello che pensa); la passione per le idee e per la politica; l’insofferenza verso il conformismo di qualunque specie.

L’idea che mi sono fatto leggendo quasi tutto d’un fiato il bel libro di Vincenzo Moretti, Bella Napoli, è che tutti i protagonisti dei racconti sono gli artefici di una lotta giornaliera per affermare, attraverso il lavoro fatto bene, con passione e con rispetto, la possibilità di cambiare il presente ed il futuro di una grande città ove, anche in relazione agli avvenimenti degli ultimi anni, sembra svanire la speranza di farcela.

Vi è, nella molteplicità dei racconti delle proprie esperienze di vita, le più diverse, un unico legame, forte e invincibile, la convinzione di non piegarsi, di non rassegnarsi, di non arrendersi di fronte all’andazzo, ai processi degenerativi, alle indifferenze, ai clientelismi, all’illegalità.

Colomba P. di Ponticelli, ad esempio, mette in evidenza la coscienza esistente in ogni napoletano di far parte di una comunità, di una città che il suo popolo, con le lotte ed i sacrifici, ne hanno fatto una Capitale di lavoro e di cultura, di arte e di scienza.

Ed è perciò che Colomba P. dice a pag. 172: “penso che in città si impara diversamente, si impara anche da altre cose, si impara dal mondo che ti gira intorno, è proprio che tu guardi altre cose e impari in un’altra maniera”. Io sono d’accordo.

Dobbiamo riflettere. La fiducia di farcela è alimentata da questi racconti veri, dai quali emerge, con discrezione, il grande contributo allo sviluppo della coscienza delle persone, delle storiche e attuali organizzazioni dei lavoratori e tra esse la CGIL.

Possiamo aprire le menti ed il cuore alla ragionata speranza del riscatto e del futuro dei giovani nell’interesse dei napoletani e del Paese.

Grazie Vincenzo.

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