Ciò che va quasi bene … non va bene

E’ stato il prof. Francesco Di Pace, nel corso della presentazione a Siano di Bella Napoli, a ricordare il motto che fa da titolo a questo post e a spiegare che era era scritto sulle porte delle Botteghe degli artigiani Michelangioleschi del legno e del ferro.
Su Facebook potete leggere la sua nota dove è pubblicata anche questa bellissima fotografia, e dove il nostro caro Prof. ricorda questa parte della discussione, che comunque riporto anche nel commento sottostante con le considerazioni e gli interventi che la nota stessa ha suscitato.
Da parte mia intendo sottolineare la bellezza di questo modo di dire, Ciò che va quasi bene … non va bene, e lo straordinario approccio al miglioramento continuo che esso sottende.
Sì, mi piacerebbe molto che la prima discussione vera su questo blog avvenisse attorno a questo tema, dunque aspetto i vostri commenti, le vostre riflessioni, i vostri interventi.
Buona partecipazione.
foto_di_pace

14 thoughts on “Ciò che va quasi bene … non va bene

  1. BELLA NAPOLI, NOTA SU FACEBOOK DI FRANCESCO DI PACE
    In occasione della presentazione del libro del sociologo Vincenzo Moretti, napoletano, professore a Sociologia presso l’unversità di Salerno, ho stretto amicizia con lui.
    L’incontro del 15 giugno us a Siano ,ci ha portato a parlare di un Territorio connaturato all’interland napoletano.
    Ho scritto anch’io,in passato,qualcosa legato al lavoro stagionale di queste zone dell’Agro Sarnese-Nocerino.
    Il mio spunto sui maestri di Bottega era legato alla riflessione del ” ciò che va quasi bene ….non va bene! “, scaturito dalla discussione. Ho ricordato che era scritto sulle porte delle Botteghe degli artigiani Michelangioleschi del legno e del ferro. I falegnami che lavoravano nelle loro botteghe il castagno e i fabbri-ferrai del ferro forgiato e battuto sull’incudine .Nei cortili dei Mannesi che, costruivano carrette e carrozze da passeggio commissionate da carrettieri locali ma anche provenienti dalle Puglie.Sulle porte delle botteghe sovente era stampato un altro motto ,molto diffuso nel Dopoguerra :” Pane e Lavoro “…..
    Altre competenze di altissimo valore manuale,erano legate al lavoro stagionale che, in in questa zona, trovava la sua esaltazione nelle “Pelatrici “dell’industria conserviera.(il pomodoro veniva pelato a mano).
    Siano, nel Dopoguerra le esportava in tutte le Aziende Conserviere della Provincia di Salerno .
    Nell’Agro, fino a Pontecagnano, Battipaglia. Raggiungevano le fabbriche trasportate su Camion,ammassate come animali. Partivano prestissimo al mattino e rincasando a prima sera .Le ore non potevano contarsi. Uno spaccato da lavoro duro ,inumano,massacrante.Uno spaccato da riconsiderare e riaprire alla memoria.

    Natalia Compagnoni
    “Ciò che va quasi bene..non va bene”..Ma ogni nota,riflessione o stralcio di incommensurabile cultura di cui che Lei ci fa partecipi…va DECISAMENTE BENE!GRAZIE PER RICORDARSI OGNI VOLTA DI INSERIRMI TRA LE PERSONE CON CUI AMA CONDIVIDERE.

    Rossana Mennella
    ciao francesco…. bello essere tra i tuoi amici… grazie del tuo ricordo… un abbraccio

    Gianni Iuliano
    La memoria è sempre utile per tentare di organizzare il futuro. Grazie Francesco.

    Gennaro Cibelli
    Vogliamo subito affermare che è nostra intenzione rendere omaggio a un’attività, a un mestiere estinto o quasi nella zona, ma che dalla fine del 1800 all’immediato periodo post-bellico del secondo conflitto mondiale, ha dato il suo gran contributo per la realizzazione d’opere modeste e d’importanza mondiale.
    Lo scalpellino- è di questo che vogliamo parlare-era un mestiere, per quanto è dato sapere e conoscere, molto richiesto, che tirava, si direbbe oggi, e si tramandava di padre in figlio, anche perche abbastanza redditizio.
    Alla fine del 1800 ci fu una notevole richiesta di scalpellini per la costruzione di dighe, come quella di Assuan, questo mestiere raggiunse il massimo della popolarità e gli scalpellini emigrarono in massa in Terra d’Africa.
    Cosi il mestiere di scalpellino, che aveva già una notevole tradizione familiare, mise radici.
    Solo a Lanzara, Castelluccio, Fimiani e Castel San Giorgio troviamo ben 124 scalpellini di ben 49 ceppi familiari.
    I più importanti scambi culturali sono stati quelli con gli scalpellini di Baveno (NO), di Iselle (NO), di Molfetta (BA) e dei paesi vesuviani.
    Insieme hanno concorso alla realizzazione di opere mastodontiche come la Prima Galleria d’Europa (Passo dell’Orco Castel San Giorgio solo con maestranze locali), la diga di Assuan, la galleria del Sempione e di monumenti come la Galleria Vittorio Emanuele a Milano, il Teatro dell’Opera di Parigi, il monumento a Cristoforo Colombo a New York e a Chicago.

  2. Ho la sensazione che sempre più spesso oggi ci ritroviamo in una situazione ben peggiore; situazioni in cui nessuno si cura che le cose siano fatte ne bene, ne quasi bene, ma soltanto che appaiano bene. Nei casi peggiori poi, non ci si interessa nemmeno di questo
    E’ un ciclo che porta macerie ma come tutti i cicli finirà e la qualità tornerà ad essere un valore non un costo

  3. La perfezione. Il sublime. C’è chi in ogni cosa tende al meglio, al perfezionamento. “Di fatto, ciò che è fatto è simile a chi lo fa” diceva il filosofo ebreo Filone di Alessandria duemila anni fa. Perché tendere all’eccelso è lo scopo dell’arte. E il lavoro, specie quello manuale, l’artigianato in particolare, diventa arte. Se il prodotto è perfetto, perfetto è anche il lavoratore, seguendo il concetto di Filone. Certo, non è facile: occorre migliorare di continuo le tecniche, aggiornarsi, “farsi il callo”, e fare tesoro dell’esperienza. Senza arrivare al “lavoro fatto con entusiasmo” profetizzato dal sindacalista rivoluzionario Georges Sorel. Non scherziamo: basta che il lavoro sia fatto a regola d’arte.

  4. Quando avevo 4 anni, mia sorella ne aveva 6 e frequentava la prima elementare. Già allora aveva il pallino della matematica ( ora insegnante di matematica prossima alla pensione). Ricordo che mi faceva sedere su una sediolina piccola, con le gambe sotto una sedia più grande, il cui sedile doveva fungere da banco, e come una maestra mi insegnava a scrivere i numeri sul quaderno. Quando arrivavo al tre era una tragedia: lo scrivevo coricato su se stesso. Ed ecco che me lo faceva rifare, una volta, due, tre e ancora una volta. Quando mi avvicinavo alla scrittura corretta, mi ripeteva: ” Va quasi bene, riprova”. Tutti i pomeriggi era la stessa lezione fino a quando non ho segnato il 3 a perfezione. La stessa cosa con mia madre quando mi ha insegnato a ricamare. Ogni punto nuovo richiedeva ore ed ore di esercitazione per sentirsi dire” Va quasi bene, puoi fare meglio”.
    Bene, nel tempo sono diventata giudice severa di me stessa ed ogni volta mi dico che posso fare sempre meglio. A volte, però, vorrei essere più indulgente, perché se è vero che questa condizione spinge a fare sempre meglio è pur vero che lascia poco soddisfazione.

  5. sia chiaro: quando parlo di qualità non intendo iper-specializzazione, persone super-esperte unicamente di una cosa. La qualità di cui parlò io è quella che si produce quando si è in presenza di un mix di elementi: talento, creatività, transdisciplinarietà, visione, apertura. Son tutte cose che sono al nostro interno, se le tiriamo fuori allora quello che facciamo è di qualità, sempre.
    La rivoluzione tecno-umanista in atto sta agevolando questo processo di ritorno alla qualità. Il nuovo paradigma sono/saranno i cloudworker. I lavoratori-nuvola non hanno mansioni, non svolgono compiti assegnati, non eseguono ordini, ma mettono a disposizione i loro talenti, le loro competenze, le loro idee alla risoluzione dei problemi del momento. I lavoratori-nuvola non distinguono lavoro e vita privata, perchè è una continua ricerca, una continua creazione, un continuo divenire, un continuo processo alchemico. Non hanno confini, ne sedi fisse, ne uffici standard; vivono le opportunità, cercano la serendepity, credono nelle diversità. I lavoratori-nuvola producono a qualità 🙂

  6. La passione, si la passione è secondo me una variabile fondamentale per fare le cose fatte per bene…è ciò che ci fa andare oltre…

  7. Se una equazione deve avere come soluzione 12 , e invece un mio alunno trova 11, mi dice “prof. è quasi risultata, perchè ha segnato errore?”, vi assicuro succede spessissimo!!!
    Ecco, questo è un esempio dove il”quasi” fa sballare tutto, e non è il solo, ogni giorno mi ritrovo a fare sempre gli stessi discorsi, la precisione in Matematica è essenziale, e forse per questo, in un mondo che viaggia sull’approssimazione continua, i ragazzi fanno fatica, non capiscono.
    Il punto geometrico ha come rappresentazione grafica un segnetto piccolo piccolo, ma ha tante definizioni: estremo , vertice, origine , piede (si, piede!!),a secondo di dove si trova, e la precisione qui è essenziale, ma col tempo i ragazzi si adattano e diventano più pignoli di me!!
    Gran parte del tempo lo dedico all’uso dei termini e del linguaggio corretto, anche perchè se si impara ad utilizzare un linguaggio con precisione, poi la stessa precisione si utilizza anche in altri ambiti.
    Qualcuno penserà che parlo solo di math, ma questo è il prezzo che si paga ad avere come amica una prof !!!!!
    Negli uffici, nelle botteghe,nei nostri comportamenti e peggio negli ospedali , nella scuola , il “quasi bene” non è solo una imprecisione diventa pericoloso, il semaforo giallo non è quasi verde…
    Ma adesso basta ,mi concedo unpiccolo elogio del quasi ; la mia casa è quasi ordinata, io sono quasi a dieta, ho letto quasi tutti i libri che ho…
    Vi ho quasi annoiato!!!!!

  8. Eppure, eppure… Adesso non voglio certo dire che “quasi”..però vi proprongo questa riflessione:
    Il chip probabilistico: quando 2+2 può anche fare 3
    E’ sempre necessaria una precisione millimetrica nei calcoli? Concetta non ti sto contraddicendo, dal punto di vista matematico e geometrico sono con te…ma…

    Nella nostra esperienza di vita no, non sempre. Ad esempio se il nostro navigatore satellitare sbagliasse di qualche metro non ne avremmo alcun disagio; così come se la nostra bilancia sbagliasse di qualche grammo (magari a qualcuno farebbe piacere che sbagliasse di qualche chilo per difetto), o neppure se il nostro tachimetro sbagliasse di un chilometro orario. Insomma nel nostro quotidiano non è necessaria una precisione scientifica nei calcoli. Ed è quello che si sono detti alcuni ingegneri della Rice University che hanno realizzato il primo chip probabilistico.

    (leggi l’articolo)
    http://www.chron.com/disp/story.mpl/metropolitan/6252697.html

    Questo chip non è in grado di effettuare calcoli matematici esatti e perfetti alla ennesima cifra decimale dopo la virgola, però a parità di calcolo rispetto ai normali chip è 7 volte più veloce e consuma 1/30 dell’energia. Sono molte le applicazioni di uso quotidiano che questo chip può gestire egregiamente; ad esempio nel settore della grafica dove la mancanza di un pixel non viene percepita e comunque risolta dal nostro cervello.
    In attesa della computazione ottica e dei calcolatori quantici e considerando che stiamo raggiungendo il limite massimo di miniaturizzazione dei chip (legge di Moore), il computer probabilistico sembra offrire delle ottime risposte e soluzioni. Meno Precisione, Meno Energia, Più Velocità 🙂
    Ovviamente ho complicato il discorso; perchè questo “quasi” è un quasi di qualità ..:))).

  9. Adriano , come al solito , offre ancora spunti di discussione, ma certo che l’assolutamente preciso non esiste, neanche in matematica.
    Infatti ai ragazzini , dopo avergli fatto una capa così con la precisione, poi gli rifiliamo i numeri irrazionali, le grandezze incommensurabili, la teoria degli errori e per sfizio pure qualche paradosso!!!!
    Adesso vengo a conoscenza pure del chip probabilistico, che è più vantaggioso….
    Il “quasi” non è sempre cattivo…..

  10. Il lavoro, come la qualità, non è un concetto statico ma evolve con il passare del tempo, con il mutare del contesto e con le esigenze degli individui. Cio che va quasi bene… non va bene e non potrà mai andare bene se non soddisfa i vari attori coinvolti nel processo del “fare le cose per bene”: il lavoratore/produttore, il controllore/valutatore, il beneficiario/consumatore. Ora, noi la “soddisfazione” la possiamo misurare come ci pare, ma certo è che una cosa è fatta bene quando c’è reciproca soddisfazione tra chi la fa e chi la riceve. In particolare, una cosa è fatta bene se si parte dalle necessità e dai bisogni di chi ne usufruisce. Fare le cose per bene significa fare le cose rispondenti alle attese di chi le desidera . Fare le cose per bene significa qualità. Non quella comunicata, progettata o erogata ma la qualità che permette a chi usufruisce della “cosa” di attribuire un valore al lavoro impiegato per soddisfare il suo bisogno.

  11. In conservatorio ci si rivolge ancora ai propri insegnanti chiamandoli “maestri”.
    In effetti loro non sono così lontani dai maestri di bottega, quelli che ti insegnavano il mestiere. Uno degli errori – mi permetto di commentare dall’alto della mia condizione di studente – che la scuola commette è quello di non far capire quanto ogni passaggio sia importante. Mi spiego meglio: il mio maestro di contrabbasso (ed io sono un privilegiato perché ho avuto un grande maestro) ha sempre preteso che ogni gesto, ogni nota suonata, fosse considerata importante quanto tutto il resto, quanto l’intero concetto “Musica”. È importante allo stesso modo tirare fuori correttamente il contrabbasso dalla custodia, eseguire una buona scala di Sib maggiore (la più semplice sul contrabbasso) e suonare un concerto di Bottesini. Ogni cosa va fatta bene, ogni minimo gesto, ogni passo deve essere fatto tenendo conto della sua importanza. Una scala di Sib maggiore è importante quanto un intero concerto. Tutti i vari pezzettini, tutto ciò che un musicista impara, deve essere appreso ed eseguito alla perfezione. Perchè tutti i pezzi, dal più piccolo al più grande, contano.
    Ecco, forse questo non si impara più, se non in quei luoghi in cui l’approccio da artigiano è ancora vivo.
    In più ogni artigiano sa che il prossimo pezzo dovrà essere migliore del precedente, o almeno qualitativamente paragonabile al precedente.
    Solo facendo bene ogni scala si fa bene il concerto.
    Ed un concerto fatto quasi bene non solo quasi non piace a chi ascolta, ma quasi non soddisfa neppure chi lo esegue.

  12. Sarà banale, ma…io penso che dipenda dai punti di vista. Mi spiego: se una versione di un mio studente riesce”quasi bene”, vuol dire che è 7, e non è 8. Se un piatto che ho deciso di preparare con amore e dedizione viene “quasi bene”, vuol dire che non è buono come avrei voluto. Se la diagnosi di un medico è “quasi esatta” vuol dire che forse questo medico non è molto affidabile (e questo è, sì, veramente grave).
    Ma se da un “non bene”, io sono arrivato a un “quasi bene”, forse sono riuscito a fare dei passi importanti rispetto a un punto di partenza.
    Il concetto quindi, secondo me, non va assolutizzato, ma rapportato a situazioni di volta in volta diverse. Il “va bene” dovrebbe essere il fine di ogni individuo. Ma, in qualche aspetto della vita, anche il “quasi bene” potrebbe essere tollerato. Per non prendersi troppo sul serio.

  13. Sabato Aliberti scrive ” una cosa è fatta bene quando c’è reciproca soddisfazione tra chi la fa e chi la riceve”, vero, ma a me non è mai capitato di essere pienamente soddisfatta di quello che ho fatto, ho sempre pensato ,dopo, che avrei potuto fare meglio, è chiaro che il desiderio è quello di fare tutto al massimo nel migliore dei modi per avere un risultato perfetto, ma il risultato finale , magari sarà soddisfacente per chi ne usufruisce, ma io rimango sempre col tarlo “poteva essere migliorato”.
    Questa cosa tempo fa mi amareggiava molto, adesso la vedo sotto un altro aspetto, la prendo come uno stimolo a fare meglio .
    Forse sto diventando un po’ più “artigiano” e mi piace!

  14. Come vivere? Allora questa domanda ce la dobbiamo porre non soltanto alla fine di un millennio, di un secolo, di un anno, ma tutti i giorni, e tutti i giorni svegliandoci, si dovrebbe dire: oggi che cosa ci aspetta? Allora io considero che si dovrebbero fare le cose bene, perché non c’è maggiore soddisfazione di un lavoro ben fatto.
    MARIO RIGONI STERN

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